Arte e Cultura a Sissa
La ROCCA dei Terzi di Sissa
L’imponente edificio, situato al centro del capoluogo, è oggi la sede del Comune , ma salendo il rinnovato scalone e oltrepassando il maestoso portone di legno, non è difficile tornare indietro nel tempo e riviverne gli antichi splendori.
Nel corso dei secoli l’architettura della Rocca ha subito numerose modifiche.
Nel 1409, infatti, fu distrutta da un violento attacco da parte dei veneziani e quando, intorno al 1440, fu ricostruita dai Conti Terzi, la sua struttura fu completamente stravolta, fino a diventare, nel corso degli anni, una residenza signorile, che poco conserva dell’antica roccaforte.
La parte più antica dell’edificio è la torre di impronta quattrocentesca nella quale, tra caditoie e finestre a strombo, è rimasta traccia della trave di sostegno usata per l’antico ponte levatoio.
Nel corso dell’Ottocento la Rocca era invece accessibile tramite due piccoli ponti in muratura: uno permetteva l’ingresso dal portone principale, l’altro, laterale, dall’attigua “Piazzola”.
Nei primi anni del Novecento, però, i ponticelli furono abbattuti e, per rendere più maestoso l’ingresso della nuova sede comunale, fu edificato un grande scalone dirimpetto a Viale della Rocca, scalone modificato nel disegno definitivo nel 1986. Anche la scalinata della facciata a Est fu ristrutturata, ma mantenendo intatte le linee originarie.
A causa dei numerosi rifacimenti la struttura dell’edificio è, in alcuni punti
del tutto diversa da quella dell’antica rocca: ad esempio rimane solo una lieve traccia del colonnato che circondava il piccolo cortile interno, ora trasformato in un corridoio di passaggio.
Altri rimaneggiamenti, se pur incauti, non hanno cancellato le importanti tracce dello sfarzo e della ricchezza che erano di casa nell’antica roccaforte.
Nell’attuale Sala del Consiglio, un tempo adibita a Teatro, proprio al centro del soffitto, è possibile ammirare una decorazione allegorica di difficile interpretazione, ma di grande importanza.
L’opera di Sebastiano Galeotti (1676-1746) rappresenta Apollo e una serie di putti che volano in un cielo notturno all’interno di una ricca cornice di stucco.
Nella medesima stanza sono conservate anche quattro tele: Paesaggio collinare (databile antecedentemente il Settecento), Fuga in Egitto (XVI sec.), Giudizio di Salomone e Figure in costume in un bosco.
A lato dell’imponente scalinata interna fanno mostra di sé alcuni personaggi mitologici (Diana, Pan e Ganimede Rapito dall’aquila), mentre le stanze, oggi per lo più adibite a uffici, sono ornate con ricche immagini raffiguranti personaggi storici e paesaggi esotici.
Di grande effetto sono i bui sotterranei, illuminati da piccole “bocche di lupo”, con i loro soffitti a volta e le pareti in mattoncini faccia a vista.
Elemento di grande valore, recentemente ristrutturato, è l’orologio del torrione.
VILLA SIMONETTA
Il corpo del fabbricato, che volge il retro al Po, si sviluppa su una base quadrata, con la facciata principale arricchita da una doppia scalinata a forbice, che conduce ad un vasto loggiato illuminato da tre fornici sormontati dalle bucature delle finestre del piano nobile. Nella penombra del portico spiccano, corrosi dal tempo, alcuni medaglioni raffiguranti Imperatori romani e soggetti mitologici che colgono in variati atteggiamenti tre divinità dell’Olimpo: Diana, Venere e Marte, vale a dire la caccia, l’amore e la guerra. Tale scelta è sicuramente ascrivibile ai proprietari nell’arco temporale in cui i signori di Torricella costruirono e abitarono la principesca dimora .
Procedendo all’interno, un breve corridoio dalle pareti dipinte immette nel salone di rappresentanza, che porta al vertice della volta un rosone su cui signoreggia l’allegoria della Primavera.
Nelle quattro sale che ruotano intorno al salone centrale la soffittatura è
arricchita da altrettanti rosoni, in cui è ancora una volta presente il tema mitologico con figurazioni del tempo, di Venere e di Diana cacciatrice.
Particolare interesse rivestono gli infissi d’epoca dall’elegante intaglio, forse prodotti dai “marangoni” locali, considerata la vocazione artigianale del paese nella lavorazione del legno. (da Capelli Giovanni, Sissa e le sue delegazioni, 1996 Ed. Tipolitotecnica, Sala Baganza -pr-)
VILLA MARCHI
Villa Marchi è senza dubbio una delle costruzioni più pregevoli del centro abitato di Sissa. Edificata sul finire del ‘600, l’edificio si presenta al viaggiatore con una notevole imponenza. La vasta corte costituita da un edificio principale e da due ali sormontate da torri quadrate con lanterna o “Torri Farnesiane” si sviluppa su un’area di circa 5.000 metri con un’ampia area verde che dà notevole respiro e visibilità al palazzo.
Le facciate dell’antica corte signorile sono caratterizzate da finestrelle ovoidali e pregevoli balconi bombati in ferro battuto.
L’edificio si sviluppa su tre piani con ampi ed alti ambienti.
Degni di nota le testimonianze di un’alcova del ‘600 e la scala in cotto a volto montante.
Il palazzo signorile voluto dai marchesi Rangoni ha ospitato nel 1976 la mostra dedicata all’insigne pittore e illustratore sissese Francesco Scaramuzza.
CORTE SALA
Alle porte di Sissa, sulla strada Provinciale per Parma incontriamo Villa Corte Sala un imponente edificio risalente alla fine del ‘600.
Nata per fungere da sede amministrativa delle possessioni agricole dei Signori di Sissa ha dominato la vasta campagna fino ai giorni nostri, rappresentando con il prospiciente oratorio dell’Addolorata un’ideale porta del paese.
La costruzione su base rettangolare si sviluppa su due piani. Annesso all’edificio principale più antico troviamo un caratteristico “chiostro” edificato nel 1740, come risulta inciso su un mattone incastonato in uno degli archi che avvolgono il cortiletto.
All’interno troviamo una pregevole scala in cotto con balaustra a colonnine e alcuni fregi in gusto cineserie. L’edificio, fino alla prima metà del secolo scorso, era dotato di una quadrata Torre Farnesiana simile a quella ancora presente nella bella Villa Marchi a Sissa.
La costruzione, restaurata sul finire degli anni ’80, è ora sede di un centro di formazione professionale.
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ASSUNZIONE DI MARIA VERGINE
Come per la Rocca, si hanno testimonianze molto antiche (fin dall’anno 1182) della Chiesa Parrocchiale dell’Assunta.
Allo stesso modo dell’imponente sede comunale, anche l’edificio sacro ha subito, nel tempo, numerosi rimaneggiamenti, tanto che già a partire dal 1459 del primit ivo insediamento non rimane traccia. È possibile, ma non certo, che alcune parti delle vecchie fondamenta siano state inglobate dall’ampliamento della Chiesa voluto e curato da Padre Apollonio Terzi nel XIII secolo.
Del nucleo originario quattrocentesco rimane oggi il campanile che, ristrutturato in tre momenti diversi, conserva la base romanica ad archetti, le bifore e la doppia cornice dentellata. Le modifiche più significative, che maggiormente hanno lasciato il segno sull’estetica del tempio, sono quelle ottocentesche, prime fra tutte l’edificazione di un avancorpo con tre archi che ha coperto il vestibolo della facciata principale.
Mirabile esempio di simmetria, l’interno è diviso in tre navate, separate
da pilastri e archi e presenta finissimi stucchi di Antonio Ferraboschi e preziosi affreschi. Sui lati delle navate sono visibili cinque cappelle, dedicate rispettivamente alla Madonna del Rosario (prima metà del Settecento), al Sacro Cuore (XVII sec.), alla Madonna delle Grazie o della Misericordia (XV sec.), a Santa Lucia (di matrice barocca), a San Giuseppe, alla Vergine, a Sant’Antonio Abate e a San Sebastiano.
Hanno invece conservato l’originario splendore l’arredo della Chiesa, in particolare l’altare maggiore e il coro in noce, e il corredo liturgico (si segnalano un antifonario del tardo Quattrocento e una preziosa croce astile).
Incuti lavori di restauro, furti ed eventi fortuiti hanno pregiudicato la conservazione di molti elementi artistici, come nel caso dell’affresco della Vergine con il bambino, reso pressoché irriconoscibile da un’imprudente opera di pulizia.
SANTUARIO DELLA MADONNA DELLE SPINE
Il Santuario della Madonna delle Spine è situato in un’oasi di verde in mezzo alla campagna, a metà strada tra Borgonovo e Gramignazzo.
Il Santuario giubilare è meta costante di pellegrinaggio, come testimoniano i numerosi ex voto alle pareti del tempietto.
Il Santuario mariano fu votato a culto fin dal 1489 mentre nel settecento fu edificato l’attuale edificio a base ottagonale.
Nel 1981, il Pontefice Giovanni Paolo II proclamòla Madonna delle Spine protettrice di tutti i donatori di sangue.
All’interno è possibile ammirare un dipinto su muro raffigurante la Vergine con il Bambino che porge un ramo di spine. Tale dipinto, incorniciato in un’ancona del settecento, fu installato nel Santuario dopo essere stato prelevato dall’Edicola che presumibilmente precedeva la costruzione dell’Oratorio, come simbolo di continuità e venerazione.
Pregevole il portale d’ingresso, caratterizzato da pannelli intagliati in stile francese, la cui esecuzione è sicuramente attribuibile ai medesimi artigiani che lavorarono per il vicino Palazzo Ducale di Colorno.
All’esterno del Santuario, a lato del vialetto d’ingresso è collocato il monumento alla memoria del Cardinale Antonio Samorè (1905-1983), opera dell’artista sissese Jucci Ugolotti.
S.ANTONIO ABATE
L’attuale edificio risulta essere il terzo rifacimento dell’originaria chiesa, risalente al secolo XV.
Gli eventi alluvionali prima e gli accadimenti bellici poi ne decretarono le numerose traversie.
La costruzione attuale, eretta nel 1950, risulta di pregevole fattura e si rifà a modelli stilistici romanico-gotici.
Pulita nelle forme, è caratterizzata da tre navate e abside.
La maestosità dello sviluppo verticale, sottolineato dal contrasto fra le colonne in cotto e le pareti bianche, dona grande respiro all’intera opera.
All’interno possiamo ammirare alcuni dipinti del Settecento, provenienti dalla precedente chiesa, demolita dai bombardamenti.
Durante l’ultimo decennio, grazie al finanziamento del Signor Agide Bertolotti e al lascito del Dottor Mario Bosi, la Chiesa è stata completata del protiro e arricchita dell’altare dedicato a San Giuseppe.
FRANCESCO SCARAMUZZA
Nato a Sissa il 14 luglio 1803, Francesco Scaramuzza inizia gli studi frequentando la “scuola di latinità” per volere del padre che, desideroso di fornire al figlio gli strumenti per un avvenire sicuro e dignitoso, lo sogna impiegato.
Fin dall’inizio, però, il giovane si fa notare per la sua grande abilità nel disegno, tanto che la famiglia decide di iscriverlo al corso di pittura della Regia Accademia di Belle Arti, dove, in seguito, otterrà anche una cattedra.
Influenzato dagli importanti cambiamenti che si avvicendano nel mondo dell’arte, in particolare da artisti francesi come Eugène Delacroix, Scaramuzza all’Esposizione di Milano del 1836 propone un quadro ispirato al canto XXXIII dell’Inferno dantesco, quello che parla del Conte Ugolino.
L’opera suscita interesse e ammirazione sia tra il pubblico che tra i critici, cosa che da al pittore la sicurezza e la spinta per cimentarsi nello studio dell’intera opera dantesca.
Nel 1853, contattato dal Dittatore delle Province Parmensi Carlo Farini, Francesco inizia la realizzazione di un impegnativo progetto: creare una serie completa di immagini relative all’Inferno per le celebrazioni legate al sesto centenario della nascita di Dante Alighieri. A causa di problemi economici del committente, l’ambizioso progetto viene ufficialmente fermato, anche se Scaramuzza continuerà i suoi studi privatamente.
A partire dal 1861, però, Gustave Doré, incisore francese, inizia a pubblicare le sue tavole sulla Divina Commedia, togliendo così il primato al sissese. Questi non si da per vinto e riesce a pubblicare le proprie illustrazioni che, se per certi aspetti superano quelle di Doré, non riescono a eguagliarne la potenza fantastica e la maestria della tecnica.
Finalmente, nel 1876, Scaramuzza riesce a finire anche tutte le illustrazioni del Paradiso.
Il prolungato e continuo contatto con il capolavoro dantesco, porta l’artista sissese a cimentarsi anche nella poesia: influenzato dalle opere di Ludovico Ariosto compone un «Poema Sacro», XXVI canti in ottave.
Con gli amici e con i colleghi letterati Francesco è solito definirsi “poeta per procura”, sostenendo di avere poteri medianici e di riuscire a scrivere grazie ai suoi poteri paranormali.
Di idee liberali, travestito da contadino rischiò la vita per portare in Piemonte, a Camillo Cavour, l’adesione di Parma allo Stato Sardo. Francesco Scaramuzza, a cui Sissa ha dedicato un suggestivo angolo del paese, muore il 20 ottobre del 1886.
Dell’artista sissese sono stati conservate numerose opere, quadri e affreschi, nella provincia di Parma e a livello nazionale. Tra i più famosi si ricordano: Silvia e Aminta del 1828 (Galleria Nazionale di Parma), San Rocco guarisce gli appestati del 1831 (Chiesa di san Rocco a Parma) e La discesa al limbo del 1856 (Castello di Moncalieri, To).
GIUSEPPE TONNA
Giuseppe Tonna nasce a Gramignazzo il 28 maggio 1920, da un piccolo proprietario terriero sposato con una donna proveniente dalla bassa cremonese.
Secondo di tre figli, Giuseppe studia a Parma nel collegio dei Salesiani, si diploma al liceo classico e si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa.
Ospite alla Scuola Normale di Pisa, per mesi il giovane sissese si occupa dello studio delle materie umanistiche, prime fra tutte la letteratura latina e quella greca. Grande appassionato di Virgilio, si laureò a Bologna (nel frattempo, a causa della guerra, era stato costretto a un riavvicinamento) con una tesi sulle Georgiche.
Nel 1945, a soli 25 anni, sposa Libera Pizzi, da cui avrà i due figli Teresa e Carlo.
Dopo una lunga peregrinazione per le scuole di Parma, della Valle Camonica e del Cremonese, nel 1959 inizia a insegnare al Liceo “Arnaldo” di Brescia, dove rimane fino al 1979, anno della sua improvvisa morte.
Collaboratore di “Aurea Parma”, “Palatina” e “Caffè”, della “Gazzetta di Parma” e del “Giornale di Brescia”, Tonna entra nel circuito letterario di Parma e frequenta Bertolucci, Colombi Guidotti, Artoni e Cusatelli. A Brescia, invece, stringe amicizia con l’editore Roberto Montagnoli e con il pittore Luciano Cottini.
Amante della filologia e del mondo contadino, nelle sue opere è riuscito a conciliare alla perfezione questi due aspetti della sua vita apparentemente tanto distanti. Così Franco Gorreri, Presidente di Banca Monte Parma S.p.A., introduce “L’ultimo paese”, l’opera più conosciuta dello scrittore di Gramignazzo:
«Tonna era di Gramignazzo di Sissa, figlio di contadini proprietari di un modesto podere, e in questo borgo a pochi passi dal Po è cresciuto ed ha concentrato tutta l’essenza della sua poesia e del suo stupore infantile. La sua vocazione di studioso ha dato frutti che hanno arricchito la cultura italiana: traduzioni di opere classiche, di testi latini e greci che sono tuttora i capisaldi della maturità studentesca, e di autori che sono passaggi obbligati per chi si addentra nell’universo della letteratura […]; ma il legame con Gramignazzo è stato il lievito della sua prosa di narratore, la fonte esclusiva della sua ispirazione e dei suoi personaggi, del suo mondo racchiuso tra casolari sparsi, con la sequenza delle stagioni, del giorno e della notte, delle semine e dei raccolti».
BIBLIOGRAFIA:
- 1941 Crisalidi sul cammino, Parma. 1951 Le bestie parlano, Guancia, Parma.
- 1955 Al di qua della siepe, Il Raccoglitore, Parma. 1976 Uomini bestie prodigi, Grafo, Brescia.
- 1987 Favole padane, Claudio Lombardi, Milano. 1988 I giorni della caccia, Claudio Lombardi, Milano.
TRADUZIONI:
- 1958 Il Baldo di Teofilo Folengo, Feltrinelli, Milano.
- 1964 La Cronaca di Fra’ Salimbene de Adam, Garzanti, Mila no. 1968 L’Odissea di Omero, Garzanti, Milano.
- 1973 L’Iliade di Omero, Garzanti, Milano.
BRUNO ZONI
Bruno Zoni nasce a Coltaro nel 1911 da Giuseppe e Lina Ronconi, parmigiani trasferitisi alla bassa per dirigere una cooperativa agricola. Diciassettenne Bruno si iscrive al Regio Istituto d’Arte di Parma, dove si mette subito in luce per le sue sorprendenti abilità artistiche e si diploma nel 1931. Segue poi i corsi di scenografia all’Accademia di Brera. Terminata la scuola inizia a insegnare senza mai trascurare la sua passione per l’arte: altre alla pittura, Bruno sa suonare il pianoforte e studia composizione.
Nel 1939 partecipa alla Quadriennale Nazionale del Paesaggio Italiano a Bergamo ed inizia ad esporre in diverse città italiane, prima fra tutte Roma.
Negli anni Quaranta Zoni si avvicina ai movimenti post-cubisti, mantenendo comunque la sua autonomia.
Nel 1950 il pittore coltarese espone alla Biennale di Venezia.
A partire dalla fine degli anni Settanta, l’artista rallenta via via, per motivi di salute, la sua produzione fino a ritirarsi definitivamente.
Bruno Zoni muore a Bannone (Pr) nel 1986.
Nel 1987 il critico Raffaele de Grada cura la mostra antologica di questo grande artista al teatro Farnese di Parma, riunendo diversi dei suoi capolavori.
La Fondazione Cassa di Risparmio, proprietaria di numerosi dipinti di Zoni, ha organizzato nel 1995 una mostra monografica con quadri eseguiti dal 1930 al 1954 e provenienti da diverse collezioni.
Recentemente è stata allestita a cura di Luciano Caramel una retrospettiva del coltarese contenete più di cento opere tra oli e quadri eseguiti con tecniche diverse.
ITALO FERRARI
Il 25 aprile 1877 nasce a Sissa, da una famiglia di onesti lavoratori, Italo Ferrari, l’uomo che diventerà dispensatore di risate per grandi e bambini di tutto il mondo.
Dalla sua fantasia, infatti, nasce, nel 1917 il burattino Bargnocla, che deve il suo nome in vernacolo parmigiano alla vistosa escrescenza “ad osso di prosciutto” che porta sulla fronte.
Dopo aver portato al pascolo le bestie di un fattore sissese per pochi centesimi, Italo iniziò a frequentare la bottega di un calzolaio .
Di quel periodo Ferrari racconta: «Al deschetto sedevo mal volentieri e, appena fuori il padrone, improvvisavo tra me e me una recita. Attori eran gli arnesi: il martello faceva da Sandrone, la tenaglia da Fasolino e gli altri ferri da Brighella, Arlecchino, Pantalone. Ma sul più bello del dialogo, quand’io ero così assorto nella finzione da dimenticarmi della realtà, ecco un urlo percuotermi le orecchie: il padrone era all’uscio. I nobili attori ripiombavan dalla gloria dell’arte all’umile ufficio, e le martellate ch’io lasciavo cadere sul cuoio mi echeggiavan nel cuore».
Al 1893 risale la prima recita, improvvisata in una stalla di Roncopascolo, da cui prende vita l’idea di intraprendere la vita del burattinaio. A questo scopo Italo si reca a Guastalla da Francesco Campogalliani, che gli svela i segreti del mestiere.
In tempi dove poter dire liberamente le proprie idee poteva diventare pericoloso, i burattini di Italo, tra una bastonata e un bicchiere di vino, si facevano portavoce dei numerosi spettatori, dei quali riscattavano l’impotenza e le frustrazioni.
«Il burattino è un puro (…) e come tale vince” sostiene Gustavo Marcheselli, probabilmente è per questo che i Burattini dei Ferrari, amici di più generazioni, sono amati anche in Giappone, dove recentemente “si sono esibiti”.
Nella sua saggezza Italo era solito dire che «il burattino è un mezzo,
se lo sai usare puoi fare qualsiasi cosa, altrimenti era e resta un pezzo di legno». E lui i burattini li sapeva usare davvero bene, così come sapeva trasformare il dialetto parmigiano in poesia.
Amato da Eleonora Duse e dal comico Ettore Petrolini che lo definì
«un mago esperto e sapiente delle forme e dello stile antico delle maschere italiane», Ferrari portò la parmigianità delle sue creature in giro per il mondo, fino alla sua scomparsa, avvenuta il 9 marzo 1961.
Da allora il figlio Giordano, prima, e il nipote omonimo “Gimmi”, poi, mantengono vive questi “pezzi di legno” dall’anima pura e pungente.
e.
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